L'antiquaria da Planco a Nardi (ilpareredellarchitetto.blogspot.com)

da Iano Planco a Luigi Nardi
(collezionisti di antiquaria e studiosi di archeologia)

Prosegue qui il racconto iniziato nel precedente articolo del 27.03.2011 con alcune vicende in materia di collezioni e antiquaria del 1700. Dibattito che riguardò da vicino le iscrizioni lapidee riminesi, le interpretazioni, le collezioni, lo studio in vivaci vicende letterarie di antiquaria e archeologia proseguirono nel 1800. Prima di passare al secolo successivo merita ricordare un divertente episodio in cui Giovanni Bianchi medico erudito e collezionista riminese, rivela la duttile abilità di adattare gli argomenti alle circostanze. Un noto aspetto del suo carattere.
Planco cambia idea sull'Arco di Augusto
Nell'articolo precedente era citato un passo della lettera di Planco ad Anton Francesco Gori (lettera del 5 dicembre 1739), parlando dell’Arco di Augusto scriveva: «questi nostri avvanzi di antichità, e specialmente il famoso arco di Augusto, gli dissi così per incidenza che c’erano alcune cose contrarie a ciò che insegna Vitruvio». Salvo poi cambiare idea e magnificarlo in un'altra lettera riportata nelle Novelle letterarie fiorentine del 1751. Passano neanche due anni e sull'argomento «avvanzi di antichità» lo ritroviamo nelle Novelle: «Due anni sono mandandovi […] vi dissi, che sembrava che Arimino volesse incominciare a gareggiare con Napoli nella scoperta di belle antichità; ora io vi dico che per questo conto delle antichità sembra che voglia incominciare a gareggiare anche con Roma. Lasciamo ora stare che noi abbiamo un magnifico arco eretto da Augusto, il quale per la sua altezza e ampiezza supera tutti quei di Roma, e d'altri luoghi». Pur essendo un medico stimato, la tendenza di Planco ad ingigantire oltre misura i propri argomenti gli procurò molti disappunti e aspri contrasti anche al di fuori dell'ambiente di provincia. Noto in molti ambienti per la ricerca costante di contatti con i maggiori personaggi dell'epoca, unita alla tendenza alla ostentazione e al primeggiare nelle polemiche ne fece un erudito noto a molti medici, letterati, scienziati, studiosi. Fu un profondo conoscitore e frequentatore del patriziato di provincia, fu abile a relazionarsi con alcuni ambienti del clero romano dell'epoca e a trarne vanto e personali benefici; una sorta di italiano ante litteram.
1800 l’alba dell’archeologia
Dopo il 1815 nella penisola cresce e si diffonde l'interesse per l'antichità, lo studio degli oggetti antichi e dei reperti provenienti dai primi scavi ufficiali conosciuti. Iniziò una lenta evoluzione dell'archeologia che successivamente, verso fine secolo, assunse la forma che diventerà in seguito la disciplina archeologica da noi conosciuta. Dal cardinale Bartolomeo Pacca nel 1820 fu promulgato l'editto che attuò per primo la cultura del restauro e della tutela. Lo strumento legislativo più avanzato del tempo a cui aveva contribuito l'erudito Avv. Carlo Fea che ricopriva l'incarico di commissario delle Antichità Romane e presidente del museo capitolino, sin dal 1802. Nel 1830 c'è fervore ed interesse per l'archeologia in tutta l'Europa, il romano Istituto di corrispondenza archeologica stampa il Bullettino omonimo in lingua italiana e francese, ed aveva recapiti a Roma, Napoli, Bologna, Torino, Parigi, Berlino e Londra. Non esisteva una tecnica di rilevamento delle aree archeologiche, i siti erano «dissotterrati» rimuovendo tutto senza alcuna accortezza o annotazione anche se nello statuto era previsto di eseguire la pianta. Esempio: dal Bullettino del 1829, p. 195 «Il sig. Teodoro Xeno commerciante olandese facendo scavi a Milos, in cerca d'antichità trovò il 13 febbraio 1827 una statua d'uom nudo mancante di testa e braccia, ma in tutto il resto intero e ben conservata; a riserva che nel dissotterrarla se ne staccarono i piedi e si spezzò la base alla quale si attaccava un panneggiamento». Altro esempio è riportato sempre nel Bullettino del gennaio 1858 che riferendo di scavi romani e di rinvenimenti di vasi durante gli scavi «qualcuno di questi vasi intieri, ma rotto dalla inavvertenza degli stessi scavatori».
Luigi Nardi a Rimini
Ad occuparsi di antiquaria e delle lapidi a Rimini tra i primi anni del 1800 troviamo Luigi Nardi, socio corrispondente al 1821 della Pontificia Accademia romana di archeologia e pubblico bibliotecario in Rimini. Ai tempi attuali l’estensore della nota del sito web della Gambalunga attribuisce al lavoro bibliotecario di Luigi Nardi «esemplare chiarezza e affidabilità» e ne tesse le lodi: «il sacerdote savignanese Luigi Nardi (1777 – 1837), bibliotecario dal 1818 al 1837, autore di un indice ragionato delle cose più riservate della Biblioteca Gambalunga di Rimino con manoscritto terminato nel 1828, che è uno strumento di esemplare chiarezza e affidabilità, sostenuto da una robusta cultura enciclopedica: cultura che nutre anche le sue numerose pubblicazioni di antiquaria e di storia ecclesiastica». (Estratto dal sito web della Biblioteca Gambalunga di Rimini. 06.06.2010. http://www.bibliotecagambalunga.it/storia/pagina7.html).
Luigi Nardi: Cesare – Rubicone – mura romane
La «robusta cultura enciclopedica» gli permise di esprimersi con chiarezza sulla questione Cesare-Rubicone. Nel libro Descrizione antiquario-architettonica, 1813, alla pag. 7 esordisce sul Rubicone «questo fiume scorreva nell’antico Contado, dieci miglia all’incirca lungi dalla medesima, andando verso Cesena […] Cesare, passato il Rubicone contro il divieto delle Leggi perorò a’ suoi soldati sulla piazza di Rimini. [prosegue] Augusto nel suo XIII Consolato ne rifece le mura», [nota (a) in Battaglini Memorie istoriche di Rimino p. 342]. Dello stesso parere fu successivamente lo storico Luigi Tonini che, contrariamente a Planco, non scambiò l'antico Rubicone con l'Uso. Nardi prosegue nel suo Descrizione antiquario-architettonica alla pag. 8 «La seguente lapida […] che era inserita nelle antiche mura […] non lascia dubbi che questo lavoro fosse fatto da Augusto = IMP. CAESAR. DIVI. F. AVG. PONT. MAX. COS. XIII. TRIB. POT. XXVII. PP. MVRVM. DEDIT.». Alla nota (b) nella stessa pagina chiarisce e precisa le disparità interpretative «A parer mio la lapida fu copiata alquanto scorrettamente, e certamente con qualche piccola differenza tra i mentovati autori [Alberti, Clementini, Garuffi]. Colle tre lezioni unite l’ho data più corretta che mi sia stato possibile, lasciando per altro un pezzo di Lapida che l’Alberti pel primo, e gli altri poscia cucirono coll’anzidetta; essendo manifesto che l’aggiunto dai medesimi è un pezzo d’iscrizione di tempi assai più bassi, dicendovisi, Curante. L. Turno. Secondo. Aproniam. Prefect. Urbis. F. Acteio. V.C. Correct. Flamin. Et Piceni».
Luigi Nardi: Vichi e Paghi
L'arciprete Luigi Nardi, rese pubblici i suoi studi nella lettera del 22 settembre 1817 pubblicata in Dissertazioni della Pontificia Accademia romana di archeologia, Roma 1821 (pag. 476) «le quali ultime due lapidi, ed altre parimenti riminesi (Grut. CCCCLXVII.I,MC.6) hanno malamente indotto in errore sommi uomini, tra quali anche il Maffei, come ho addimostrato nella ristampa della Descrizione dell’Arco di Augusto (pag. 9, 10, 11). Hanno cercato i vichi delle dette lapidi nell’agro riminese, ed altri si sono rotto il capo per ubicarli, senza dirci cosa alcuna di buono, né dire lo potevano; sendochè i detti vichi cercare si dovevano entro la città». Proseguendo nel Giornale arcadico di scienze lettere ed arti, Tomo 23°, Boulzaler Roma 1824 (pag. 348), affrontò la questione dei vichi e dei paghi nelle lapidi riminesi. Non prima di aver premesso «Dirò ciò che penso, anzi ciò che unicamente è vero, e non già opinione: lo dirò coll’urbanità che si conviene, e con quello spirito che anima a cercare il vero, non a far pompa di erudizione», sottolineando il sempre acceso clima di polemiche che accompagna, all’ora come ora, un certo spirito campanilistico di alcuni intenti a far «pompa di erudizione». Probabilmente l’aver espresso sui vichi opinioni in contrasto con Marini, Maffei, Amaduzzi gli procurò vivi risentimenti per affermare: «I municipii d’Italia, e più le Colonie, e Rimino fu Colonia romana, seguivano con servilità sino al ridicolo gli usi della capitale […] L’adulazione verso i padroni, l’ambizione patria, la necessità, ed il comando talora, ne furono le cagioni». Nardi attraverso una ricostruzione con fonti antiche delle unità amministrative dette vichi, affermò che Rimini, entro le mura, era divisa in sette vichi (come noti luoghi di Roma) citati nelle lapidi riminesi. Le lapidi, che menzionavano i vichi riminesi erano state ritrovate tutte in ambito cittadino. Inoltre precisò che i vichi istituiti da Ottaviano in Roma erano considerati unità amministrative cittadine. Le città di provincia in seguito ad Ottaviano adottarono la stessa suddivisione fuori dalle mura cittadine. I prefetti istituiti da Servio Tullio, tanto nelle città che nelle campagne, divennero Magistri Vicorum o Vico Magistri. I paghi in origine erano i villaggi rurali, al contrario delle piccole unità amministrative dette vichi. Successivamente i paghi divennero comprensori più ampi formati da: vichi, vichi maggiori e dal Capoluogo. «Quindi il pago contiene i vichi, non viceversa». Suddivisione che rimase fino al medioevo sia in città che in campagna.
Luigi Nardi: Amara conclusione e monito
Sorprendono le schiette parole conclusive nel Giornale arcadico suddetto. Con tono forte e amareggiato Nardi rende esplicite la ostilità patite da una parte dei riminesi. Il primo pensiero è rivolto ai collaboratori «pure mi sento annoiato da non poterne più; giacchè cagiona più tormento il dovere sostenere e provare una verità che salta agli occhi e vuolsi impugnare, che una verità che abbisogni di qualche dimostrazione». Il secondo pensiero è rivolto a tutti richiamando l’umana fallacità «Voi che umani siete condonate le mancanze che nello scritto incontrerete» ma immediatamente dopo continua l’esternazione contro gli avversari «non così faranno certi spregevoli insetti, e bianchi e neri, del luogo che abito». Le amare parole di Nardi non lasciano spazi all’interpretazione, «spregevoli insetti» è il disprezzo a chi lo attaccò deliberatamente per aver espresso la sua opinione. Le parole «il luogo che abito» sottintendono il rimarcare la propria origine savignanese, esterna alla città. Proseguendo arriva il monito «Guai a te se mostrassi diffidare di loro sapienza, e guai maggiore se si figurano che tu abbia relazioni letterarie, e guai grandissimo quando sappiano che tu abbia pubblicato qualche cosa colle stampe». Le pesanti parole sono prologo alla conclusione «Ma non più di sì rei maligni insetti, nodridi dal velen sono, per buona fortuna pochissimi, e di basso stato». Nella vicenda delle lapidi riminesi la «robusta cultura enciclopedica» non evitò a Nardi i profondi dispiaceri patiti, dispiaceri che con discrezione chiamò «tormento».

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